Ruscelli dove sguazzano le trote

Konstantin Paustovsky
(Traduzione dal russo: A.B.)

 

Il destino di un maresciallo dell’impero napoleonico — non lo nominiamo per non irritare gli storici e i pedanti — merita d’essere raccontato a voi che vi lamentate della povertà dei sentimenti umani.

Questo maresciallo era ancora giovane. I suoi capelli appena brizzolati e una cicatrice sulla guancia rendevano un fascino speciale alla sua faccia che diventò scura dalle continue privazioni e campagne militari.

I soldati amavano il maresciallo: condivideva con loro il fardello della guerra. Dormiva spesso nel campo accanto al fuoco, avvolto nel suo mantello, e si svegliava al rauco squillo della diana. Beveva dalla borraccia comune e portava l’uniforme consumata e impolverata.

Non vedeva e non conosceva nulla al di fuori delle marce e battaglie estenuanti. Non gli veniva mai in mente di chinarsi nella sella e chiedere — senza cerimonie — a un contadino come si chiamava l’erba che calpestava il suo cavallo, oppure curiosare di cosa erano famose le città occupate dai suoi soldati per la gloria della Francia. L’incessante guerra lo rese taciturno e gli insegno l’obblio della propria vita.

Un inverno, il corpo di cavalleria del maresciallo acquartierato in Lombardia ricevette l’ordine di avanzare verso la Germania per raggiungere “l’armata grande”.

Dopo dodici giorni di marcia, il corpo d’arma si fermò per pernottare in un paesino tedesco. Le candide montagne nevate splendevano dolcemente nella notte. Le foreste di faggi si estendevano intorno e soltanto le stelle luccicavano nel cielo in mezzo a quella quiete universale.

Il maresciallo alloggiò in un albergo. Dopo una modesta cena si sedette davanti al camino del salottino e mandò via i subordinati. Era stanco e voleva restare solo. Il silenzio del piccolo paese coperto dalla neve fino alle orecchie gli ricordava forse l’infanzia, forse un sogno recente che, probabilmente, aveva immaginato. Il maresciallo sapeva che in questi giorni l’imperatore avviava una battaglia decisiva, e si convinceva che l’insolito desiderio della calma adesso gli serviva come l’ultimo riposo prima dei clamori precipitosi della battaglia.

Il fuoco induce uno stato di torpore. Il maresciallo che fissava i tronchi ardenti nel camino non notò che nel salotto era entrata una persona anziana con una magra faccia a punta. Indossava un frac blu rattoppato in vari punti. Lo straniero si avvicinò al camino per scaldarsi le gelide mani. Il maresciallo alzò la testa e chiese con tono scontento:

– Chi siete, messere? Perché siete apparso così silenziosamente?

– Sono il musicista Baumweiss, — rispose lo sconosciuto. — Entrai discretamente perché in questa notte d’inverno ci si vuole muovere involontariamente senza far rumore.

Il viso e la voce del musicista sembravano disponibili e il maresciallo pensò e poi disse:

– Sedetevi vicino al fuoco, messere. Confesso, nella mia vita le serate così tranquille non capitano spesso, e sarei contento di parlare con voi.

– La ringrazio, — rispose il musicista, — ma, se permette, mi siedo anzi al pianoforte e suono un po’. E già da due ore che mi insegue un tema musicale. Ho tanto bisogno di suonarlo, ma nella mia camera su non c’è un piano.

– Come volete… — rispose il maresciallo, — anche se preferisco il silenzio di questa notte ai suoni più divini.

Baumweiss si sedette al pianoforte e cominciò a suonare pianissimo. Al maresciallo parve che intorno al paesino suonasse la neve profonda e leggera, cantasse l’inverno, cantassero tutti rami dei faggi appesantiti dalla neve, e persino il fuoco squillasse nel camino.

Il maresciallo s’incupì, guardò i tronchi e notò che non era il fuoco a squillare ma lo sperone del suo stivale.

– Comincio già ad immaginarmi qualche diavoleria, — disse il maresciallo. — Pare che siete un musicista magnifico.

– No, — rispose Baumewiss e si fermò, — suono ai matrimoni e alle feste di gala degli aristocratici locali e di gente famosa.

Dinnanzi al portico si sentì il cigolio dei pattini e il nitrito dei cavalli.

– Eccoci, — si alzò Baumweiss, — è per me. Mi permetta di salutarla.

– Dove andate? — chiese il maresciallo.

– Nelle montagne, a due leghe da quì, abita il boscaiolo, — rispose Baumweiss. Ora ospita la nostra adorabile diva Maria Czerny. Si è rifugiata qui dalle avversità della guerra. Oggi compie ventitré anni e da’ una piccola festa. E che festa è senza il vecchio pianista Baumweiss?

Il maresciallo si alzò dalla poltrona.

– Messere, — disse, — il mio corpo d’armata parte domattina. Non sarà troppo scortese da parte mia chiedervi di farvi compagnia e passare la notte nella casa del boscaiolo?

– Come desidera, — rispose Baumweiss e fece un inchino riservato, anche se era visibilmente sorpreso dalle parole del maresciallo.

– Però, — disse il maresciallo, — non una parola a nessuno. Esco dal portico secondario e salgo sulla slitta accanto al pozzo.

– Come desidera, — ripetette Baumweiss, s’inchinò di nuovo ed uscì.

Il maresciallo rise. Quella sera non aveva bevuto del vino, ma una strana ebbrezza spensierata lo sopraffece.

– Nell’inverno! — disse a sè stesso. — Al diavolo, nel bosco, nelle montagne notturne! Stupendo!

Indossò il mantello e uscì discretamente dall’albergo attraverso il giardino. Accanto al pozzo trovò la slitta — Baumweiss lo aspettava. I cavalli, sbuffando, sfrecciarono davanti alla sentinella uscendo dal paese. La sentinella, come d’abitudine anche se in ritardo, alzò il fucile e salutò il maresciallo. Ascoltò a lungo il tintinnio dei campanelli della slitta e scosse la testa:

– Che notte! Ah, quanto vorrei un sorso di vino caldo!

I cavalli correvano spediti sulla terra forgiata d’argento. La neve si scioglieva sulle loro teste calde. Le foreste erano incantate dal gelo. L’edera nera stringeva forte i tronchi dei faggi come se volesse riscaldare le loro linfe vitali.

All’improvviso i cavalli si fermarono davanti ad un ruscello. Non era ghiacciato. Ribolliva, chiassoso e spumeggiante, scorrendo dalle cave delle montagne, dalla boscaglia piena di alberi sradicati e gelide foglie.

I cavalli bevvevano dal ruscello. Qualcosa sfrecciò sotto i loro zoccoli come un getto argentato, e i cavalli, spaventati, balzarono al galoppo nella stradina stretta.

– Le trote, — disse il cocchiere. — Son dei pesci allegri!

Il maresciallo sorrise. L’ebbrezza non passava. Non passò nemmeno quando i cavalli portarono la slitta in una radura di montagna, di fronte ad una vecchia casa con un tetto alto.

Le finestre erano illuminate. Il cocchiere scese e aprì lo sportello.

La porta si spalancò e il maresciallo a fianco di Baumweiss entrò, togliendo il mantello, in una stanza bassa illuminata dalle candele, e si fermò alla soglia. All’interno c’erano varie donne e uomini con vestiti eleganti.

Una delle donne si alzò in piedi. Il maresciallo la guardò e indovinò che era lei Maria Czerny.

– Perdonatemi, — disse il maresciallo arrossendo un po’. — Scusatemi per quest’invasione inattesa. E che noi, soldati, non conosciamo né famiglia, né feste, né placida allegria. Permettetemi di riscaldarmi un poco davanti al vostro fuoco.

Il vecchio boscaiolo gli fece un inchino, mentre Maria Czerny s’avvicinò rapidamente, guardo il maresciallo negli occhi e gli porse la mano. Il maresciallo le baciò la mano che gli sembrò gelida come un pezzo di ghiaccio. Nessuno fece una parola. Maria Czerny toccò delicatamente la guancia del maresciallo, sfiorò con un dito la cicatrice profonda e domandò:

– Ha fatto molto male?

– Sì, — rispose il maresciallo, confuso, — è stata una dura sciabolata.

Allora lo prese per mano e lo condusse davanti agli ospiti. Lo presentò, timida e radiante, come se presentasse il proprio fidanzato. Un sussurro di sconcerto corse tra gli ospiti.

Non so, lettore, se vi devo descrivere l’aspetto di Maria Czerny. Se voi, come me, eravate un suo contemporaneo, avrete sicuramente sentito parlare della straordinaria bellezza di questa donna, del suo incedere leggero, del suo temperamento capriccioso ma accattivante. Non esisteva un uomo che avrebbe osato sperare l’amore di Maria Czerny. Forse soltanto persone come Schiller potevano esser degne del suo amore.

Che accadde quindi? Il maresciallo passò nella casa del boscaiolo due giorni. Non parleremo di amore perché non abbiamo ancora scoperto che cosa sia. Sarà la neve densa che cade tutta la notte, oppure i ruscelli invernali dove sguazzano le trote. Oppure il riso e il canto e il profumo della vecchia cera all’alba, quando si spengono le candele e le stelle si stringono alle finestre per risplendere negli occhi di Maria Czerny. Chissà. Può darsi che sia il tocco di una mano nuda sulla dura spallina militare, le dita che accarezzano i capelli freddi, il frac rattoppato di Baumweiss. E le lacrime maschili per ciò che il cuore non si aspettava mai: la tenerezza, l’affetto, il sussurro delirante nelle notti nel bosco. Sarà il ritorno dell’infanzia. Chi lo sa? E potrebbe essere anche la disperazione dell’addio, quando il cuore precipita e Maria Czerny accarezza freneticamente la tappezzeria e gli sportelli di quella stanza che fu testimone del suo amore. E sarà forse il grido e l’obblio di una donna, quando fuori dalle finestre, nel fumo delle torce ai suoni stridenti dei comandi, i gendarmi napoleonici scendono dalle selle ed entrano dentro per arrestare il maresciallo sull’ordine personale dell’imperatore.

Esistono delle storie che sfrecciano e scompaiono come degli uccelli, ma restano nella memoria delle persone che ne diventano testimoni involontari.

Intorno tutto rimase come prima. Come prima mormoravano al vento i faggi e il ruscello faceva vorticare le foglie scure. Come prima echeggiava l’ascia nelle montagne, e le donne del paesino chiacchieravano radunate al pozzo.

Ma, chissà perché, queste foreste e il lento cadere della neve e il luccichio delle trote nel ruscello portavano Baumweiss a tirar fuori dalla tasca del frac un vecchio ma candido fazzoletto, stringerlo agli occhi e mormorare parole slegate del breve amore di Maria Czerny e che talvolta la vita assomiglia alla musica.

Ma — sussurrava Baumweiss — nonostante il dolore al cuore, fu contento di aver preso parte di quella storia e di aver provato un’emozione che capita raramente a un vecchio pianista.

1939