Un cestino con le pigne d’abete

Konstantin Paustovsky
(Traduzione dal russo: A.B.)

 

Il compositore Edvard Grieg passava l’autunno nei boschi vicino a Bergen.

Tutti i boschi sono belli con la lora aria di funghi e il fruscio delle foglie. Ma i boschi di montagna in riva al mare hanno una bellezza speciale. Li’ si sente il rombo delle onde. Dal mare il vento porta in continuazione la nebbia, e da quest’abbondanza dell’umidità il muschio cresce forte e rigoglioso. Pende dai rami degli alberi a ciocche verdi fino al suolo. E poi, nei boschi di montagna vive, come un tordo beffeggiatore, un allegro eco. E’ sempre in attesa per cogliere ogni suono e lanciarlo oltre le rocce.

Una volta Grieg incontro’ nella foresta una piccola bambina con due trecce — figlia del boscaiolo. Stava raccogliendo le pigne d’abete in un cestino.

Era autunno. Se si potesse raccogliere tutto l’oro e il rame che ci sono sulla terra e forgiare migliaia e migliaia di finissime foglie, farebbero una minuscola parte di quel decoro autunnale che vestiva le montagne. D’altronde, le foglie forgiate sembrerebbero rozze in confronto a quelle vere, specialmente a quelle di pioppo. Tutti sanno che le foglie di pioppo tremano anche al canto di un uccellino.

— Come ti chiami, bambina? — Chiese Grieg.
— Dagny Pedersen, — rispose la bambina sotto voce.

Lei rispose sotto voce non dalla paura ma dall’imbarazzo. Non poteva avere paura perché gli occhi di Grieg ridevano.

— Che sfortuna! — disse Grieg. — Non ho niente da regalarti. Non ho in tasca ne’ bambole, ne’ nastri, ne’ conigli di velluto.
— Ho la bambola vecchia di mamma, — rispose la bambina. — Tempo fa sapeva chiudere gli occhi. Cosi’!
La bambina chiuse gli occhi lentamente. Quando li riapri’, Grieg noto’ che le sue pupille erano verdastre e dentro luccicava il fogliame.
— E ora dorme con gli occhi aperti — aggiunse Dagny con tristezza. — I vecchi dormono male. Anche nonno geme tutta la notte.
— Ascolta, Dagny, — disse Grieg, — ho un’idea. Ti regalerò una cosa interessante. Soltanto non adesso, ma, metti, tra una decina d’anni.
Le mani di Dagny fecero un gesto impaziente.
— Oh, quanto tempo!
— Vedi, devo ancora farla.
— E che cos’e’?
— Lo scoprirai più tardi.
— E’ possibile che in tutta la sua vita, — chiese Dagny severamente, — lei può fabbricare solo cinque o sei giocattoli?
Grieg si senti’ imbarazzato.
— No, non e’ cosi’, — obietto’ con aria incerta. — La faro’, forse, in pochi giorni. Ma cose del genere non si regalano ai bambini piccoli. Io faccio regali per i grandi.
— Non lo rompero’ — disse Dagny supplicando e tiro’ Grieg per la manica. — E non lo faccio cadere, la assicuro! Mio nonno ha una barca giocattolo di vetro. La spolvero spesso e non ne ho mai rotto neanche un pezzettino.
“Mi ha totalmente confuso, questa Dagny”, — penso’ Grieg con frustrazione e disse ciò che i grandi dicono sempre quando gli capita essere in una situazione scomoda davanti ai bambini:
— Sei ancora piccola e non capisci tante cose. Impara ad essere paziente. Ora dammi il tuo cesto. A malapena riesci a trascinarlo. Ti accompagno e parleremo di qualche altro argomento.

Dagny sospiro’ e porse a Grieg il suo cestino. Era davvero pesante. Le pigne d’abete contengono tanta resina e perciò pesano molto di più di quelle del pino.

Quando tra gli alberi apparse la casa del boscaiolo, Grieg disse:
— Bene, e adesso corri a casa, Dagny Pedersen. Ci sono tante bambine che portano questo nome in Norvegia. Come si chiama tuo padre?
— Hagerup, — rispose Dagny, e corrucciando la fronte, chiese: — E non viene da noi? Abbiamo una tovaglia ricamata, un gatto color zenzero, e una barca di vetro. Nonno le lascerà tenerla un po’.
— Grazie. Ora non ho tempo. Addio, Dagny!

Grieg accarezzo’ i capelli di Dagny e se ne andò verso il mare. Dagny, tutta accigliata, lo accompagno’ con lo sguardo. Teneva il cestino storto, e le pigne ne cadevano fuori.

“Comporro’ un brano”, — decise Grieg. Sul frontespizio ordinerò di stampare: “A Dagny Pedersen, figlia del boscaiolo Hagerup Pedersen, quando compiera’ diciotto anni”.

* * *

A Bergen era tutto come prima.

Tutto ciò che poteva attenuare i suoni — tappeti, tende, mobili imbottiti — Grieg li aveva già tolti da tempo. Rimase solo il vecchio divano. Poteva accogliere una decina di ospiti e Grieg non aveva il cuore di buttarlo.

I suoi amici gli dicevano che la sua casa pareva la dimora di un boscaiolo. Era adornata esclusivamente da un pianoforte. Uno dotato di un po’ di immaginazione poteva sentire in mezzo a queste pareti bianchi delle cose magiche — dal rombo del oceano settentrionale che dall’oscurita’ e dal vento mandava delle onde, fischiandone sopra la sua saga selvaggia; fino al canto di una bambina che cullava una bambola di stoffa.

Il pianoforte era capace di cantare di tutto — dell’impeto dello spirito d’uomo verso l’immenso, oppure dell’amore. Il bianconero dei tasti, scappando sotto le dita robuste di Grieg, bramava, rideva, tuonava di una tempesta e d’ira, e poi si zittiva in un colpo. E allora, nel silenzio, si sentiva a lungo soltanto una corda fine, come se piangesse Cenerentola presa in giro dalle sorelle.

Grieg, tutto disteso, ascoltava finche’ quell’ultimo suono non si smorzasse nella cucina, dove da molto tempo dimorava un grillo. Poco a poco si cominciava a sentire come, contando i secondi con l’esattezza di un metronomo, gocciolava l’acqua dal rubinetto. Le gocce sostenevano con insistenza che il tempo passava, che bisognava affrettarsi a far tutto ciò che era contemplato.

Grieg ci mise più di un mese per comporre la musica per Dagny Pedersen. Venne l’inverno. La nebbia avvolse la città fino alla gola. Vaporetti arrugginiti arrivavano da paesi diversi e si assopivano nelle banchine di legno, soffiando leggermente del vapore.

Presto comincio’ a nevicare. Grieg vedeva dalla sua finestra come i fiocchi volavano obliqui, aggrappandosi alle cime degli alberi.

E’ ovviamente impossibile descrivere la musica con le parole, non importa quanto sia ricca la nostra lingua.

Grieg scriveva delle più profonde delizie della fanciullezza e della felicita’. Componeva e vedeva come gli corre incontro, ansimando dalla gioia, una ragazza dagli occhi verdi radianti. Lo abbraccia per il collo e stringe la guancia calda alla sua guancia coperta di peli brizzolati. “Grazie!” — dice, non sapendo ancora perché lo sta ringraziando.

“Sei come il sole — le dice Grieg. — Come un vento tenero, come un’alba. Nel tuo cuore spunto’ un candido fiore e riempi’ tutto il tuo essere degli olezzi della primavera. Io vissi e vidi la vita. Qualunque cosa ti venga detta di essa, credi sempre che e’ meravigliosa e straordinariamente bella. Sono un vecchio, ma diedi ai giovani la mia vita, il mio lavoro, il mio talento. Diedi tutto senza chiedere niente in compenso. Perciò io sono, forse, persino più felice di te, Dagny.

Sei una notte bianca con la sua luce misteriosa. Sei la felicita’. Sei lo splendore dell’alba. La tua voce fa tremare il cuore.

Sia benedetto tutto ciò che ti circonda, ciò che ti tocca e ciò che tocchi tu, ciò che ti rallegra e che ti fa riflettere”.

Cosi’ pensava Grieg e suonava di tutto ciò che pensava. Sospettava che qualcuno lo stesse spiando. Anzi, immaginava chi lo facesse. Erano gli uccelli sull’albero, i marinai brilli che tornavano al porto, la vicina lavandaia, il grillo, la neve che cadeva dal cielo a strapiombo e la Cenerentola con l’abito rattoppato.

Ognuno ascoltava a modo suo.

Gli uccelli si agitavano. Non importava come si girassero, non potevano coprire il pianoforte con le loro chiacchiere.

I marinai ubriachi si accomodavano sui gradini della casa e ascoltavano singhiozzando. La lavandaia raddrizzava la schiena, si asciugava con la mano gli occhi rossi e scuoteva la testa. Il grillo usciva fuori dalla fessura tra le piastrelle che rivestivano la stufa e adocchiava Grieg.

La neve si fermava sospesa nell’aria per ascoltare i ruscelli di suono che sgorgavano dalla casa. E Cenerentola sorrideva con gli occhi fissi sul pavimento. Vicino ai suoi piedi scalzi c’era un paio di scarpette di cristallo. Si scontravano tremando, in risposta agli accordi che giungevano dalla stanza di Grieg.

Questi ascoltatori, Grieg li appezzava più del pubblico elegante ed educato che veniva ai suoi concerti.

* * *

A diciotto anni Dagny si diplomo’.

Per quest’occasione il padre la mando’ a Christiania per passare un po’ di tempo da sua sorella Magda. Magari la bambina (il papa’ la considerava ancora una bambina, anche se in verità Dagny era già una ragazza snella con due pesanti trecce bionde) guarda come e’ fatto il mondo, come vive la gente, e si diverte un po’.

Chissa’ cosa le riserva il futuro? Magari un marito onesto e affettuoso, ma un po’ tirchio e noioso? Oppure il lavoro da commessa nella bottega del paese? O forse un incarico in una delle tante agenzie marittime a Bergen?

Magda faceva la sarta teatrale. Suo marito Nils lavorava nello stesso teatro come parrucchiere. Vivevano in una stanzetta sotto il tetto del teatro. Da li’ si vedeva il golfo chiazzato dalle bandiere navali e il monumento di Ibsen. I piroscafi gridacchiavano tutto il giorno nelle finestre aperte. Zio Nils studio’ le loro voci talmente bene che, affermava, poteva riconoscere perfettamente chi fischiava — “Norderney” da Copenhagen, “Bard” da Glasgow, oppure “Jeanne d’Arc” da Bordeaux.

Nella camera di zia Magda c’erano molti oggetti scenici: broccati, sete, tulles, nastri, pizzi, antichi cappelli di feltro con delle piume nere di struzzo, scialli di zingari, parrucche bianche, stivali con degli sproni in ottone, spade, ventagli e scarpette argentate un poco consumate nelle pieghe. Tutto questo andava sistemato, aggiustato, pulito e stirato.

Sui muri erano appesi dei quadri tagliati dai libri e riviste: nobiluomini dei tempi di Luigi XIV, belle dame con le crinoline, cavalieri, donne russe che indossavano vestiti estivi, marinai e vichinghi con le teste cinte di corone di quercia.

Per entrare occorreva fare una scala molto ripida. Li’ si sentiva sempre l’odore di vernice e della lacca per le dorature.

Dagny andava spesso al teatro. Era un passatempo affascinante. Ma dopo gli spettacoli ci metteva molto ad addormentarsi e talvolta anche piangeva nel suo letto. Tutta preoccupata, zia Magda provava a calmarla. Diceva che non si poteva credere a tutto ciò che accadesse sul palco. Ma zio Nils desse a Magda della mamma chioccia e disse che, al contrario, bisognava credere a tutto. Altrimenti i teatri non servirebbero a un bel niente. E Dagny ci credeva.

Pero’ zia Magda insisti’ che — tanto per cambiare — sarebbe stato meglio andare ad un concerto. Nils non pose nessuna resistenza. “Musica, — disse, — e’ lo specchio del genio”.

A Nils piaceva esprimersi in una maniera vaga e sublime. Di Dagny diceva che sembrava il primo accordo di una sinfonia. E Magda, secondo lui, possedeva un potere di stregare le persone. Si manifestava nel fatto che lei cuciva dei costumi teatrali. E chi non sa che una persona, ogni volta che indossa un costume nuovo, cambia del tutto. Ed esce cosi’ che lo stesso attore che ieri era un infame assassino, oggi diventa un amante appassionato, domani sarà un buffone del re, e dopodomani — un eroe popolare.

— Dagny, — gridava allora zia Magda, — tappati le orecchie e non ascoltare queste terribili sciocchezze. Non sa neanche lui cosa sta dicendo, questo filosofo della mansarda!

Erano le calde notte bianche di giugno. I concerti si svolgevano nel parco municipale sotto le stelle.

Dagny ando’ al concreto con Magda e Nils. Voleva indossare il suo unico vestito bianco. Ma Nils insisteva che una bella ragazza doveva vestirsi in un modo da spiccare tra la folla. In breve, il suo lungo discorso a questo proposito si riduceva al fatto che le notti bianche obbligavano un vestito nero, mentre era nelle notti scure che occorreva splendere con il candore del vestito bianco.

Dissuadere Nils era un compito futile, perciò Dagny si mise un vestito nero di un soffice velluto. Il vestito gliel’ha procurato Magda dal guardaroba scenico. Quando Dagny lo indosso’, Magda accetto che Nils forse aveva ragione — nulla sottolineava il viso chiaro di Dagny e le sue trecce lunghe color oro ramato meglio di quel velluto misterioso.

— Guarda, Magda — disse zio Nils sotto voce, — Dagny sta cosi’ bene come se andasse al suo primo appuntamento.
— Infatti! — rispose Magda. — Non mi ricordo di aver visto un bel giovanotto quando tu venni al nostro primo appuntamento, mio dolce chiacchierone.

E Magda bacio’ zio Nils sulla testa.

* * *

Il concerto inizio’ dopo il solito colpo di cannone del porto. Il colpo segnalava il tramonto del sole.

Nonostante fosse sera, ne’ il direttore, ne’ i musicisti dell’orchestra non accesero le luci per illuminare i loro spartiti. La sera fu cosi chiara che i lampioni che splendevano tra le foglie dei tigli erano accesi evidentemente soltanto per adornare l’evento.

Fu la prima volta che Dagny ascoltava la musica sinfonica. Ebbe un effetto strano su di lei. Tutti gli arpeggi e i tuoni dell’orchestra evocavano tante visioni che assomigliavano a dei sogni.

All’improvviso Dagny sussulto’ e alzo’ gli occhi. Le parse per un attimo che l’uomo magro con il frac, quello che annunciava il programma, la chiamasse per nome.

— Mi hai chiamato tu, Nils? — chiese lo zio, lo fissò, e arriccio’ subito il naso.

Lo zio la guardava con qualche aria forse di spavento, forse di ammirazione. E cosi’ la guardava, stringendo il fazzoletto alla bocca, anche zia Magda.

— Che succede? — chiede Dagny.

Magda la strinse per la mano e sussurro’:

— Ascolta!

E allora Dagny senti’ come l’uomo in frac disse:

— I gentili spettatori delle ultime file mi hanno chiesto di ripetere. Ebbene, ora ascolteremo il famoso brano musicale di Edvard Grieg, dedicato alla figlia del boscaiolo Hagerup Pedersen, Dagny Pedersen, per l’occasione del suo diciottesimo compleanno.

Dagny sospiro’ cosi’ profondamente che il dolore le strinse il petto. Con quel sospiro cerco’ inutilmente di trattenere le lacrime. Si inchino’ coprendosi il volto con le mani.

Inizialmente non sentiva niente. Dentro di lei tuonava una bufera. Poi finalmente senti’ come canta all’alba il cornetto di un pastore e come gli risponde con cento voci, con un lieve sussulto, un’orchestra d’archi.

La melodia cresceva, si innalzava, infuriava come il vento, scorreva sulle cime degli alberi strappandone le foglie, agitava l’erba e colpiva la faccia con degli schizzi freschi. Dagny sentì un impeto d’aria che la musica portava con se’, e si costrinse a calmare.

Si’! Fu il bosco, il suo suol nativo. Le sue montagne, il canto dei corni, il fragore del suo mare!

I battelli di vetro schiumavano l’acqua. Il vento ronzava tra il cordame. Questo suono si trasformava di soppiatto nel tintinnio delle campanelle, nei fischi degli uccelli che facevano acrobazie nell’aria, nelle filastrocche dei bambini, nella canzone di una fanciulla — il suo amico del cuore le getto’ all’alba una manciata di sabbia nella finestra. Dagny senti’ questa canzone nelle sue montagne.

Fu lui, quindi. Quel uomo dai capelli brizzolati che l’aiuto’ a portare il cestino con le pigne d’abete. Fu Edvard Grieg, un mago e un grande musicista! E lei lo rimproverò perché non sapesse lavorare più in fretta. Eccolo, quindi, quel regalo che le promise dieci anni fa.

Dagny piangeva senza nascondersi, ma erano lacrime di gratitudine. A quel punto la musica riempi’ tutto lo spazio tra la terra e le nuvole che pendevano sopra la città. Le sue onde melodiche incresparono le nuvole. Dalle increspature brillavano le stelle.

La musica non cantava più. Chiamava. Chiamava con se’ in quel paese dove nessuna tristezza non potesse raffreddare l’amore, dove nessuno priva l’uno l’altro della felicita’, dove il sole splende come la corona nei capelli di una buona maga delle fiabe.

Nel flusso dei suoni all’improvviso apparse la voce famigliare. “Sei la felicita’, — diceva. — Sei lo splendore dell’alba!”

La musica si smorzo’. All’inizio lentamente e poi sempre crescendo sono scoppiati gli applausi.

Dagny si levo’ e cammino’ velocemente verso l’uscita del parco. Tutti la fissavano. Forse a qualcuno degli spettatori passo’ per la mente che questa ragazza fosse quella stessa Dagny Pedersen alla quale Grieg dedico’ il suo pezzo immortale.

“E’ morto! — pensava Dagny. Perche’?” Se solo potessi rivederlo! Se solo potesse apparire qui! Col cuor battente gli correrebbe incontro, lo abbraccerebbe per il collo, si stringerebbe con la guancia umida di lacrime alla sua guancia, e gli direbbe solo una parola: “Grazie!” — “Per che cosa?” — le chiederebbe. “Non lo so…” — risponderebbe Dagny — Perche’ non si e’ scordato di me. Per la sua generosità. Per avermi rivelata quella bellezza per la quale deve vivere una persona.”

Dagny camminava per le strade vuote. Non notava che dietro di lei, tentando di non farsi vedere, camminava Nils mandato da Magda. Camminava con un passo incerto come un ubriaco borbottando qualcosa del miracolo che era successo nello loro piccole vite.

La città giaceva ancora nel crepuscolo. Ma nelle finestre sorgeva già la tenera doratura dell’alba settentrionale.

Dagny si avvicino’ alla costa del mare. Era immerso in un sonno profondo, senza nemmeno uno schizzo.

Dagny si strinse le mani e gemette da una vaga sensazione della bellezza di questo mondo che catturo’ tutto il suo essere.

— Ascoltami, vita, — disse piano — ti amo.

E rise, guardando con gli occhi spalancati le luci delle navi. Dondolavano lentamente nella limpida acqua grigia.

Nils, che rimase alla larga, senti’ il suo riso e torno’ a casa. No si preoccupava piu’ per Dagny. Ora sapeva che la sua vita non sarebbe stata vissuta in vano.